La Corte di Cassazione ha recentemente confermato che un lavoratore può essere legittimamente licenziato se svolge attività incompatibili con la sua patologia durante il periodo di malattia. Questo avviene quando l’attività compromette la guarigione o dimostra la non genuinità della malattia dichiarata. La sentenza n. 28367 del 27 ottobre 2025 ribadisce che non esiste un divieto assoluto di svolgere attività extra-lavorative, ma se queste ledono i doveri di fedeltà, correttezza e buona fede, il datore di lavoro può procedere al recesso per giusta causa. La decisione sottolinea l’importanza di valutare ogni situazione con attenzione, analizzando se l’attività sia effettivamente pregiudizievole per il processo di guarigione.
Cassazione: licenziamento legittimo per attività extra incompatibili con la malattia
La Corte di Cassazione ha consolidato negli ultimi anni un orientamento molto chiaro in materia di attività extra-lavorativa svolta durante periodi di malattia. La sentenza n. 28367 del 27 ottobre 2025 rappresenta il pronunciamento più recente della Sezione Lavoro, che ribadisce l’importanza del rispetto dei doveri contrattuali anche durante l’assenza per motivi di salute. Il caso esaminato riguardava un dipendente che, durante una malattia certificata, svolgeva attività fisica e professionale come personal trainer, comportamento ritenuto incompatibile con lo stato patologico dichiarato.
La sentenza mette in evidenza che il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro resta rilevante anche durante la malattia. Il lavoratore rimane vincolato al rispetto dei principi di correttezza e buona fede sanciti dagli articoli 1175 e 1375 del Codice Civile. Ogni condotta che comprometta il processo di guarigione o che dimostri la simulazione dello stato patologico può giustificare il recesso immediato per giusta causa. Questa decisione si inserisce in una linea giurisprudenziale avanzata dalla Cassazione sin dal 2021, quando con sentenza n. 9647 del 13 aprile aveva già affermato principi analoghi.
I presupposti per il licenziamento disciplinare in caso di attività extra-lavorativa
Quando l’attività extralavorativa costituisce illecito disciplinare
La Cassazione ha chiarito che l’attività extralavorativa durante la malattia integra un illecito disciplinare quando ricorrono specifiche circostanze. La prima circostanza si verifica quando l’attività dimostra l’inesistenza della malattia stessa, ovvero quando il comportamento del lavoratore contraddice palesemente la condizione patologica dichiarata. La seconda ricorre quando l’attività è potenzialmente idonea a pregiudicare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. Non è necessario che si verifichi un danno concreto: è sufficiente che vi sia un rischio obiettivo di compromissione della salute.
La Corte d’Appello di Roma e il giudice di primo grado, nella sentenza n. 28367/2025, hanno sottolineato come il comportamento del dipendente violi gravemente i doveri di correttezza e buona fede, rendendo legittimo il licenziamento anche in assenza di danno economico diretto. La documentazione raccolta (assenza di fasciature, non rispetto delle prescrizioni mediche) rappresenta un elemento fondamentale per ritenere l’attività incompatibile con la condizione di salute.
L’irrilevanza del divieto assoluto e il principio della compatibilità
Non esiste un divieto assoluto di svolgere attività durante la malattia, come ribadito dalla sentenza n. 11154 del 28 aprile 2025. Tuttavia, il principio fondamentale è la compatibilità tra l’attività svolta e la patologia dichiarata. Se un lavoratore è in malattia per una frattura al braccio, ma viene sorpreso a svolgere attività fisica intensa che richiede l’uso dell’arto interessato, tale comportamento è manifestamente incompatibile con la prescrizione medica di riposo e immobilizzazione.
La Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’attività extralavorativa costituisce illecito di pericolo, anche in assenza di danno concreto, se risulta idonea ex ante a mettere a rischio la ripresa dell’attività lavorativa. Questo significa che la valutazione non si fonda su ciò che effettivamente è accaduto, ma su ciò che potrebbe ragionevolmente accadere considerando le circostanze specifiche del caso.
Come la compatibilità si valuta caso per caso
La responsabilità del datore di lavoro nella prova
Spetta al datore di lavoro il compito di dimostrare l’idoneità potenziale della condotta a compromettere la guarigione. Non è un onere leggero: il datore deve fornire evidenze concrete che l’attività svolta sia effettivamente incompatibile con la patologia dichiarata. La documentazione deve essere coerente e attendibile, come confermato nella sentenza n. 28367/2025, dove la Cassazione ha ritenuto immune da vizi il giudizio di merito della Corte d’Appello.
Le circostanze rilevanti includono le prescrizioni mediche specifiche fornite dal medico curante, la natura dell’attività svolta dal lavoratore in malattia, il tempo dedicato a tale attività e la potenziale incidenza sulla guarigione. La Cassazione ha sottolineato che il giudice di merito ha il potere di valutare queste circostanze, e la Suprema Corte non può rivedere il merito della decisione se il ragionamento è logicamente coerente e fondato su prove attendibili.
Gli elementi di valutazione della condotta incompatibile
La valutazione della compatibilità tiene conto di numerosi fattori. Prima di tutto, l’effettiva incompatibilità fisica tra l’attività e la patologia: un personal trainer che svolge la sua professione durante una malattia per infortunio agli arti è manifestamente incompatibile. In secondo luogo, il rispetto o meno delle prescrizioni mediche: se il medico prescrive riposo assoluto e il lavoratore è sorpreso a svolgere attività ludiche che richiedono movimento, ciò costituisce violazione.
Terzo elemento è la durata e la frequenza dell’attività: un’attività occasionale e breve potrebbe avere una valenza diversa rispetto a un’attività sistematica e professionale. Quarto, il contesto temporale: se l’attività si svolge in periodi in cui la guarigione dovrebbe già essere avanzata, potrebbe avere minore rilevanza rispetto a periodi precoci della malattia. Infine, il tipo di malattia: una patologia acuta e grave richiede diverso livello di prudenza rispetto a una patologia leggera.
Gli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede durante la malattia
Il vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro subordinato
Il lavoratore in malattia non è libero di fare ciò che vuole: rimane vincolato al dovere di fedeltà, che rappresenta uno dei pilastri del rapporto di lavoro subordinato. La sentenza n. 28367/2025 ribadisce che ogni condotta che compromette la fiducia del datore di lavoro o che dimostra la non genuinità della malattia può giustificare il recesso immediato. Questo principio rispecchia l’idea che il rapporto di lavoro si fonda su reciproca fiducia e correttezza.
L’obbligo di buona fede, sancito dall’articolo 1375 del Codice Civile, impone al lavoratore di comportarsi in modo coerente con gli impegni assunti e con lo stato patologico dichiarato. Se un lavoratore dichiara di essere malato e impossibilitato a lavorare, ma contemporaneamente svolge attività che richiedono le medesime capacità fisiche che la malattia dovrebbe compromettere, viene meno la buona fede nel rapporto contrattuale. La Cassazione ha sottolineato come tale violazione sia grave e irreversibile nel compromettere il rapporto di fiducia.
La lesione dei doveri di diligenza e fedeltà
L’articolo 2104 del Codice Civile impone al lavoratore di svolgere la prestazione con la diligenza del buon padre di famiglia, e l’articolo 2105 prescrive il dovere di fedeltà. Durante la malattia, questi obblighi non scompaiono: il lavoratore deve agire in modo tale da non contraddire la propria condizione di salute e da non ledere gli interessi legittimi del datore di lavoro. La sentenza n. 28367/2025 evidenzia come il comportamento del dipendente che svolgeva attività di personal trainer durante la malattia integrasse una grave violazione di tali doveri.
La violazione non deve per forza causare un danno economico concreto al datore di lavoro per integrare giusta causa di licenziamento. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, è sufficiente che la condotta sia oggettivamente incompatibile con la condizione sanitaria dichiarata o che sia idonea a minare la fiducia nel rapporto. Questo criterio protegge sia l’integrità del sistema retributivo della malattia (che serve per permettere la guarigione, non per svolgere altre attività) sia il rapporto di fiducia che fonda il lavoro subordinato.
Implicazioni pratiche per lavoratori e datori di lavoro
Che cosa deve fare il lavoratore durante la malattia
Il lavoratore in malattia deve astenersi da attività incompatibili con la patologia dichiarata e con le prescrizioni mediche. Ciò significa che se il medico prescrive riposo assoluto, il lavoratore non può dedicarsi a lavori fisici o attività che richiedano sforzo. Se la malattia riguarda il braccio, non può svolgere attività che sollecitino l’arto interessato. La sentenza n. 28367/2025 dimostra che anche attività marginali o svolte a titolo gratuito non sono escluse da questa regola.
Inoltre, il lavoratore deve mantenere coerenza tra lo stato di salute dichiarato e il proprio comportamento. Se chiede giorni di malattia per una patologia specifica, non può poi essere sorpreso a svolgere attività che dimostrino la non genuinità della malattia. Questo non significa restare obbligatoriamente a casa: attività leggere e compatibili con la patologia possono essere permesse, ma la loro compatibilità sarà valutata dal giudice in caso di controversia.
Cosa può fare il datore di lavoro in caso di condotta incompatibile
Il datore di lavoro che sospetta comportamenti incompatibili con la malattia dichiarata deve raccogliere prove concrete e documentate. Le prove possono includere testimonianze di colleghi, video o fotografie che mostrino il lavoratore mentre svolge attività incompatibili, relazioni di investigatori privati (se legittimamente incaricati), o semplici osservazioni dirette. La sentenza n. 11154 del 28 aprile 2025 sottolinea che la documentazione raccolta deve essere attendibile e coerente.
Una volta in possesso delle prove, il datore può procedere al licenziamento disciplinare per giusta causa senza preavviso. Tuttavia, deve rispettare le procedure disciplinari previste dalle leggi e dai contratti collettivi: solitamente è necessario comunicare i contestamenti al lavoratore dandogli la possibilità di difendersi. La Cassazione ha confermato che il licenziamento immediato per giusta causa è proporzionato quando la condotta sia effettivamente grave e idonea a compromettere la guarigione o a dimostrare la simulazione della malattia.
Le conseguenze del licenziamento illegittimo
Se il giudice ritenesse il licenziamento illegittimo, il datore di lavoro potrebbe essere condannato al pagamento di risarcimenti significativi. Nella sentenza n. 11154/2025, la Corte d’Appello aveva inizialmente condannato il datore al pagamento di 13 mensilità di stipendio prima che la Cassazione cassasse la sentenza. Questo dimostra come una valutazione errata della compatibilità dell’attività con la malattia possa avere conseguenze economiche rilevanti.
D’altro canto, il lavoratore che ricorre illegittimamente a periodi di malattia per svolgere altre attività corre il rischio di perdere la protezione normativa della malattia e di essere licenziato per giusta causa. La sentenza n. 28367/2025 ha inoltre condannato il lavoratore al pagamento delle spese processuali, quantificate in euro 4.500 oltre accessori di legge, illustrando come il ricorso infondato abbia conseguenze economiche ulteriori.
Orientamenti giurisprudenziali consolidati sulla materia
La Cassazione ha sviluppato negli ultimi anni una giurisprudenza coerente e consolidata in materia di attività extralavorativa durante la malattia. La sentenza n. 9647 del 2021, la ordinanza n. 11154 del 2025 e la più recente sentenza n. 28367 del 2025 formano un corpo di orientamenti giurisprudenziali che ribadisce principi comuni. Questi principi si basano sulla convinzione che il rapporto di lavoro subordinato riposa su una fiducia reciproca che non può essere violata anche durante periodi di assenza.
La Suprema Corte ha sottolineato che l’attività extralavorativa incompatibile con la malattia integra un illecito di pericolo, non richiedendo la prova di un danno concreto ma solo la dimostrazione dell’idoneità potenziale della condotta a compromettere la guarigione. Questo orientamento protegge l’integrità del sistema retributivo della malattia, garantendo che le prestazioni integrative destinate a permettere la guarigione non vengano utilizzate per svolgere altre attività redditizie o incompatibili.
Un aspetto importante evidenziato dalla recente giurisprudenza è che nemmeno l’attività gratuita è esclusa da questo controllo. Secondo la sentenza n. 9647/2021, il fatto che l’attività sia svolta a titolo gratuito non elimina l’illegittimità della condotta se essa è incompatibile con la patologia dichiarata. Questo significa che il lavoratore non può eluderlo sostenendo di non trarne beneficio economico.



